lunedì 15 marzo 2010

Africa (Ciao Indro, hai scoperto se c'è?)

"Ci sono due razzismi: uno europeo - e questo lo lasciamo in monopolio ai capi biondi d'oltralpe; e uno africano - e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve. Almeno finchè non si sia data loro una civiltà." (Indro Montanelli, da Asmara, Etiopia, Gennaio 1936, per "Civiltà Fascista".)

Uno dei tanti fax che ho scritto a Indro, questo è del 29 Luglio 1997

All'attenzione di: Indro Montanelli.
Mittente: Raffaele Birlini.
Oggetto: Anch'io sono stato in Africa.


Dall'oblò si vedeva solo buio, nessuna fila di lampioni a illuminare strisce d'asfalto, nessun agglomerato di puntini luminosi a segnare i confini della civiltà. Probabilmente il ronzio lontano delle nostre turbine nel cielo era l'unico suono artificiale della giungla, là sotto. L'oblò teneva fuori il buio, ma anche l'odore dell'aria e un mucchio di altre cose, fra le quali la paura. Un odore così penetrante, fatto di terra muschio carne e polvere d'ossa; una paura così sottile, capace di prenderti alle spalle e spingerti nel nulla di uno stupore incomprensibile, alieno. Gli occhi pieni di colori stanchi, di movimenti inconsueti, nelle orecchie la totale assenza di suoni familiari. Come aprire la porta e uscire dalla realtà, e la sorpresa di sentire i capelli ritti sulla nuca senza sapere il perché. Questa la mia prima impressione del Ruanda, un paio di mesi prima della guerra fratricida.

L'aeroporto di Kigali è una struttura moderna, troppo grande. Ne viene utilizzata una sola grande stanza, le altre sigillate e controllate da soldati armati fino ai denti. Soldati dappertutto: quelli bianchi della base belga e quelli neri dell'esercito ruandese. Posti di blocco ovunque con ragazzini che ti puntano il mitra sorridendo, gli occhi nascosti nel giallo malarico. Domani scoppierà una bomba in questa strada che sto percorrendo, moriranno due persone e resterà ferita una bambina. Si respira tensione. Al confine con lo Zaire c'è una massicciata perfetta per i cecchini, lo afferma la donna alla dogana prima di chiedermi informazioni sul vaccino per la meningite. Ne ho fatti una decina, anticolera compreso, ma della meningite non sapevo nulla. Un biglietto da dieci dollari la convince a non rimandarmi subito a casa.

Arrivano e partono solo aerei belgi e russi ed è vietato scattare foto, la pena varia: calcio del mitra sulla mascella e macchina fotografica a pezzi, oppure sventagliata fulminante di proiettili e invio della salma al Paese natio. Esco e mi fermo sotto il sole ad osservare le basse colline tutt'attorno, coperte da una pesante cappa di opacità, effetto abat-jour provocato dall'umidità. Raggiungeremo la base dei missionari entro sera. Forse. Mentre aspetto la forza di muovere un altro passo in quell'aria densa come budino, ascolto la canzone dell'anziana signora addetta alle pulizie. È swahili, la lingua più complicata che mi sia capitato di incontrare. Una melodia lenta e articolata, capace di trattenere per ore l'incauto ascoltatore che se ne lasci irretire. Quando s'accorge del mio interesse smette per un momento di cantare dicendomi una frase che potrebbe essere un commento come una domanda. Termina con "Eehhhhh", cadenza tipica della parlata di qui.

Non capisco cosa provo vivendo tutto questo, è come se il mio cervello fosse di colpo tornato vergine, incontaminato, come l'immenso territorio di terra rossa e cielo bianco che mi circonda. Sono qui solo da un'ora, e mi sembra già trascorso un secolo. Un millennio. All'indietro nel tempo. Mi viene l'impressione di aver ancora pochi giorni di vita e questo mi rende oltremodo recettivo. Forse è questo il mio modo di subire il mal d'Africa. Un male molto simile al dolore fisico, per quanto mi riguarda. Un male che fa chiudere la bocca e aprire gli occhi. Che ti fa prendere per mano un bambino che ti guarda con ignara speranza e sguardo felice; poco lontano sua madre, tubercolosa, sputa sangue. Che ti abitua a camion stracarichi con gente appesa alle paratie, a vacche scheletriche, a donne anziane che percorrono chilometri pur di andare a vendere la loro dozzina di uova dove il prezzo è un poco più alto.

E tutt'intorno milizia armata, uscita dai campi d'addestramento russi e cubani, povertà', febbri, rassegnazione, discorsi punteggiati da "Eehhh" che a lungo andare tengono compagnia, danno calore come fossero amichevoli abbracci sonori.

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