giovedì 28 gennaio 2010

Questo è un utente deappleizzato.

Non è mia intenzione oppormi all'avanzata della mela, lo dimostra il fatto che nessuno mi paga per farlo, e nemmeno voglio rischiare di esprimere uno snobista anti-snobismo di ritorno. Dal momento che alcune persone non riescono a capacitarsi della mia avversione a qualsiasi oggetto abbia stampata sopra una mela, mi sento in dovere di tranquillizzarli sulla mia eccentricità esponendo delle motivazioni.

Ho una certa età, e confesso che a dieci anni ho chiesto a mio padre, come regalo di compleanno, era il 1980, qualche azione della Apple. Per motivi a me tuttora ignoti, non le ottenni. Forse era illegale o troppo difficoltoso ai quei tempi per un italiano procurarsele. Ma non è il fatto di non essere diventato milionario ad avermi tenuto lontano dalla mela. Il momento in cui avrei venduto le azioni, se le avessi avute, è stato quando la superiorità dei processori grafici della mela venne meno e un pc con processore intel e sistema operativo windows poteva tranquillamente sostituire un mac. Vendendo le azioni avrei perso l'occasione di diventare ancora più ricco, ma parlando di azioni immaginarie il problema non si pone.

Una ipotetica pubblicità comparativa a quel punto avrebbe potuto essere: il pc costa la metà, il pc lo apri e ci cambi i pezzi, il pc hai tonnellate di software, spesso free o share, a disposizione, il pc hai accesso a configurazioni, hardware, linguaggi per programmarlo. Il mac costa il doppio, se si rompe lo devi portare in negozio e te lo tengono via per settimane, lo sa usare anche un bambino perché ci puoi fare solo cose elementari. Il mouse, per dire, il mouse del pc ha dai tre ai dieci tasti, il mouse del Mac ha un tasto solo, lo può usare anche capitan uncino.

Alcune cose che mi obiettavano. Il mac non prende virus. Per forza, sarebbe come andare a rubare in un villaggio in Alaska quando hai New York sotto casa: chi vuoi che perda tempo a studiare a fondo un sistema operativo per scrivere un virus che colpirebbe solo un target ridottissimo? Non appena qualcuno si è preso la briga di studiarlo per scopi didattici ha scoperto che ha più falle di uno scolapasta. Il mac è più figo. Va bene, siccome è caro diventa un modo come un altro per sottolineare differenze di reddito. Siccome ha un bel design non devi nasconderlo nel ripostiglio quando hai ospiti a cena. Tutte cose vere, peccato che io sia nato senza il gene della moda. Ho cercato di fare il paninaro una volta, ma alla fine ho capito che mi stava costando troppi soldi, tempo, fatica e salute mentale.

La mossa successiva della mela fu metterci il processore intel e sui mac ora poteva girare anche windows senza ricorrere alla virtualbox. Perché tanti si gasano di usare altri sistemi operativi e poi li trovi con windows nella virtual machine che minimizzano quando qualcuno entra nella stanza. Quindi ora potevi far girare X su pc e win o linux su mac. In pratica a quel punto il mac lo compri solo perché fa più figo se ce l'hai, perché sei convinto di non prendere virus, perché riesci a usarlo senza dover capire qualcosa di come funziona il tutto, dentro la scatola. Inoltre puoi scegliere il colore che preferisci e il mouse ha un solo tasto, per i dinosauri digitali è la ciliegina sulla torta.

La mela ha scoperto che la maggior parte del mercato è fatto di gente che vuole un oggetto figo per fare cose tecnologiche premendo un solo bottone. È geniale, lo ammetto, gli altri si rivolgono alle nuove generazioni, che ti sanno dire cos'è uno yottaflop, che vogliono sistemi aperti e modificabili a piacimento, che vivono in un futuro che ancora non è arrivato e chissà se mai arriverà.

La mela si è spinta oltre, ha invaso il territorio dei contenuti. E anche questa è stata una trovata geniale. Io ti do un oggettino che non compreresti neanche per salvarti da un meteorite che ti sta cadendo sulla testa e te lo faccio comprare con questo trucco: ti permetto di scrivere e vendere software che ci gira sopra (e mi prendo una percentuale), ti faccio entrare in un negozio dove trovi tutte le canzoni che ti vuoi a un prezzo bassissimo (e mi prendo una percentuale). Con l'ultimo prodotto, ipad, ora tocca a libri e giornali.

Non ha agito nell'interesse dei dinosauri solo nel campo dei consumatori, ma si è posta a metà strada anche fra le esigenze della vecchia economia, fatta di formati proprietari, brevetti, di interi settori industriali sconvolti da simulazioni Montecarlo col volto di Cassandra, e la nuova economia che considera sulla via dell'estinzione innumerevoli forme di intermediazione. Ha conquistato l'appoggio dell'establishment laddove gli altri non fanno niente per cercare di salvare il salvabile, anzi, offrono strumenti per accelerare il passaggio.

Assistiamo a una guerra tra coloro che cercano di proteggere, di rendere analogico, ciò che vendono, e coloro che cercano di eliminare lucchetti, chiavistelli, serrature. La mela ha iniziato sigillando a doppia mandata tutto quanto. Ora si è spostata un po', si è messa in mezzo nel senso più eterogeneo della parola.

Non ho mai comprato una cosa con la mela sopra, comprerò l'ipad? No, non ha nemmeno un processore intel, son tornati a chip proprietario. Ci sono tablet in arrivo che fanno le stesse cose e costano meno. Non saranno gingilli fighi che sa usare anche un tecnofobo, ma pazienza.

Paradossalmente, sono riusciti a trasmettere il messaggio che chi compra mela è più tecnologico, che gli altri usano rottami perché sono degli invidiosi pezzenti sfigati. A mia scusante posso supporre che un difetto genetico mi impedisca di integrare acriticamente nei miei processi mentali le affascinanti invenzioni del mela-marketing: "Byte into an Apple", "Soon there will be 2 kinds of people. Those who use computers, and those who use Apples", "The Power to Be Your Best", “Think different”, "The Computer for the rest of us", "The home computer that's ready to work, play and grow with you", "iThink, therefore iMac", "The notebook you love”, "Hold everything", "That's entertainment", "What's an Intel chip doing in a Mac? A whole lot more than it's ever done in a PC", "The internet in your pocket", "Touching is believing", "The future is here", "Redmond, we have a problem", "It's Here. It's Real. It's Amazing", blablablabla.

mercoledì 27 gennaio 2010

Chi è ebreo alzi la mano

Oggi è la giornata della memoria, ci si ricorda che qualche decennio fa se scoprivano che eri ebreo ti applicavano delle leggi ad personam, fatte apposta per te, leggi che in sostanza ti vietavano tutto tranne il diritto di venire rinchiuso, sottoposto a esperimenti, picchiato affamato schiavizzato e se tutto questo ancora non ti uccideva allora potevi scegliere fra gas, proiettile, o altra soluzione finale. Anzi, no, non potevi scegliere.

Sì ok, le navi negriere, la rieducazione russa e cinese, orde di mongoli, le caste, i pellerossa, lo sappiamo che non esiste solo l'olocausto nella storia, ma oggi parliamo di quello. Perché io, ad esempio, non lo so mica se sono ebreo, non è una cosa che si vede a occhio nudo. Ti misuravano il diametro del cranio, la lunghezza del naso, ti controllavano il prepuzio, non è facile capire se uno è ebreo, io potrei benissimo essere ebreo senza nemmeno rendermene conto.

Non per vantarmi, ma un po' mi ci sento, ebreo. Vuoi mettere far parte di un popolo eletto, con una storia millenaria fatta di continue persecuzioni. C'erano i faraoni in Egitto e già gli ebrei venivano legnati di brutto, non so se mi spiego. Magari un mio avo era là che rideva quando piovevano rane e tutte quelle altre piaghe: vedi cosa succede a far incacchiare il mio dio? Non è facile passare da uno che ti apre in due un mare per farti attraversare a uno che si lascia inchiodare a una croce senza scagliare neanche una piccola maledizione, uno shmuck borbottato, niente.

Da una parte Nietzsche dice che dio è morto, dall'altra i cristiani dicono che gli ebrei hanno ucciso dio. Hai tanto da far notare che c'erano i romani al tempo, che c'era tutta una questione politica, che ogni due per tre saltava fuori uno a dichiararsi messia. Voglio dire, leggete l'ultima tentazione, mica poteva invecchiare. Insomma ogni scusa è buona per avercela con gli ebrei: non è che dal nulla si sveglia un austriaco e da lì parte la persecuzione, magari uno pensa che prima di Hitler gli ebrei non venissero discriminati, e invece no, è una cosa che va avanti da secoli.

Per cui mi chiedo: se scoprissi di essere ebreo, il che è possibile, molto possibile, forse ancora oggi cercherei di tenermelo per me, di non farlo sapere in giro. Forse comincerei a immaginarmi che la gente mi sta trattando in modo diverso e non avrei modo di capire se è vero oppure no, mi sentirei come quello nella pubblicità dell'aids che ha un'aura rossa intorno al corpo. Essere ebrei è uno stato mentale? Come quando Kennedy disse “siamo tutti berlinesi”, potremmo dire siamo tutti ebrei, così ci togliamo il pensiero.

Visto che è il giorno della memoria voglio condividere un ricordo. Ero a Rothenburg ob der Tauber, non ero ancora sposato e con la mia futura moglie potevamo ancora permetterci di vagabondare. Arriviamo stanchi e io vado dritto in questo albergo e prendo una camera. Mia moglie a un certo punto mi tira per la manica e sorride facendomi un cenno con la testa. Sassi neri fra quelli grigi del selciato, di fronte all'ingresso dell'albergo, formano una grande stella di davide. Adesso capisco in che lingua mi ha accolto il ragazzo all'ingresso, era yiddish, mi ha preso per un ebreo. Dev'essere per via del naso, penso. L'albergo si chiama Butz e appartiene alla stessa famiglia dal 1894. Dentro ci sono fotografie e cartelli che spiegano come nel periodo nazista se la siano vista brutta. Gli han fatto chiudere l'attività, alcuni membri della famiglia sono spariti, deportati, qualcuno ha messo una bomba per far capire bene il concetto e la bomba è esplosa e ha distrutto parte dell'albergo e rischiato di mandare a fuoco l'intera costruzione. E per fortuna che si era nel ghetto, dove in teoria se eri ebreo ti chiudevano dentro al ghetto e ti lasciavano relativamente in pace.

Quella sera a cena una donnona con le guance rosse e il grembiule ci ha fatto da mangiare, cuoca eccezionale, e a un certo punto viene verso di me asciugandosi le mani nel grembiule e non inizia anche lei a parlarmi in yiddish? Mi vergogno, in quel momento vorrei parlare anch'io yiddish, vorrei dirle va bene, sono ebreo, mi avete scoperto. Invece posso solo guardarla con espressione da ebete e quando vedo che capisce che non sono ebreo e ci rimane male mi viene in mente una parola, dico kirsh, e lei mi rivolge un sorriso meraviglioso e me ne porta una bottiglia intera.


lunedì 25 gennaio 2010

CyberPapa

Mi sta simpatico, il Papa, il Papa in generale, ma questo in particolare. Fin dal primo giorno, quando tutti gli si sono scagliati addosso, forse volevano un Papa nero, come nella canzone dopo miss Italia un Papa nero, e invece non solo è bianco ma è tedesco: apriti cielo! Il pastore tedesco, paparazzi-nger, da giovane era un SS, bruciava le formiche con la lente di ingrandimento, incollava le zampe delle lucertole, cattivo cattivo non si fa.

Lui che veniva fuori, nonostante tutta 'sta cagnara, e sorrideva che ti metteva i brividi, ce l'ha ancora quel sorriso che fa a pugni con lo sguardo, ti punta addosso gli occhi e tu pensi: puoi sorridere fino a farti venire una paresi, mi fai paura lo stesso. Così questo Papa mi sta molto simpatico, mi affascina. Tu pensi al Papa e pensi che sia un tipo un po' via di testa, tutto perso nella mistica del buonismo, dalla lacrima facile, il Papa che deve accarezzare i bimbi sulla testa come fossero cuccioli di cane, che deve benedire da lontano, che deve dolersi per tutto il male che vede succedere e dire cose semplici piene di amore e di speranza. Voglio dire, un Papa che non dà fastidio.

Invece lui no, ti sembra quasi che lo irriti dover interpretare il Papa, con tutte le cose che ha da fare gli tocca pure fare il Papa, sembra pensare. Forse perché ha letto molto, ha studiato molto, l'impressione è che sappia troppe cose, che sia troppo avanti. Eppure ha i capelli bianchi, dovrebbe essere un vecchietto che dove lo metti sta, se ne sta lì e aspetta che gli porti la minestrina con l'omogeneizzato. Non ti aspetti che sappia parlare con te, che abbia qualcosa da dirti che sia interessante. Dirà le solite cose che dicono i Papi, pensi, la Chiesa non è mica una roulotte che la sposti dove ti pare quando ti serve, ci vogliono secoli prima che si decida anche solo a spostarsi di un passo. Allora lo guardi con più attenzione e - esclamazione scurrile! - magari mi sbaglio, ma mi sembra che ci sia qualcosa di strano, di diverso, non è il solito Papa che gli cambiano solo il corpo.

Infatti dice sì quello che ci si aspetta da un Papa, ma ogni tanto ci mette del suo, ti sembra quasi di vedere i preti che si agitano e si guardano intorno per capire in che direzione potrebbero scappare, i vescovi che si sentono improvvisamente scomodi sulla sedia, le suore che sbarrano gli occhi e si portano la mano alla bocca. In passato avvelenavano i Papi per molto meno, ci vuole molta cautela quando fai il Papa, è molto più sicuro leggere quello che ti mettono sotto il naso e lamentarti borbottando quando sei da solo in camera tua.

Mi sta simpatico, Benedetto, anche perché ieri ha detto “cyberspazio”. Non credo nessun Papa l'abbia mai detto prima. Ha detto “cyberspazio” e nella stessa frase non c'era né satana né male né pericolo. “La parola di Dio potrà prendere il largo tra gli innumerevoli crocevia creati dal fitto intreccio delle autostrade che solcano il cyberspazio e affermare i diritto di cittadinanza di Dio in ogni epoca.” Non so se mi spiego, questo Papa è un grande, senti cosa dice - esclamazione scurrile! - è un Papa digitale. Prendere il largo, fitto intreccio, diritto di cittadinanza di Dio. Un Papa cerebrale che non perde tempo a crogiolarsi nei sentimenti quando può sublimarli in puro pensiero. Sembra proprio uno che sa di cosa parla, non è un critico qualunque che non ha idea di cosa significhi. Dio che entra in rete, te lo immagini? Riesco a malapena a sondarne le implicazioni.

venerdì 15 gennaio 2010

Il mio dio ha il martello, il tuo è stato inchiodato.

Ogni tanto saltano fuori dalla scatola gli accademici, Lincei e Crusca, che vuol dire non lo so, sembrerebbe una specie di club, tipo il Mensa, il circolo del bridge, saltano fuori come pupazzi a molla e parlano della lingua italiana. Come se la lingua italiana, la lingua in generale, fosse qualcosa di importante, ci credono davvero, non fanno finta.

Come se ci fossero intellettuali che studiano la forma e i colori delle banconote, le leghe metalliche e le forme dei cacciaviti. Ti dicono cose tipo i nostri cacciaviti ora contengono una maggiore quantità di nichel. Oppure la gente di questi tempi tende a stropicciare i biglietti da mille.

Siamo una piccola provincia dell'impero, tutte le lingue del mondo vengono tradotte in inglese per toccarsi, stiamo vivendo un momento epocale di transizione in molti sensi, ormai le rivoluzioni durano anni, non secoli. In mezzo all'uragano di cambiamenti che rende preistorico non il trisavolo, non il bisnonno, non il nonno, ma il padre, il fratello maggiore, noi troviamo questa zattera sbattuta nelle onde con sopra gli accademici, in giacca e cravatta, che ogni tanto tirano un razzo di segnalazione per dire “siamo qua”. C'è qualcosa di poetico, provo la stessa sensazione di quando osservo orsi impagliati, un velo di polvere sugli occhi di plastica.

Non sto dicendo che raccontano stupidate, quello di cui parlano ha senso, ti viene da dargli una pacca sulle spalle e dirgli bravo, solo che è come sentir parlare di come si apparecchia la tavola con dieci posate a cranio, quando tutti mangiano un panino per strada, con le mani, mentre parlano al telefono, guardano un video, fanno gesti che hanno significato solo oggi, solo per cinque minuti.

Allora parliamone, della lingua italiana, prima che sparisca del tutto, cerchiamo di par passare il messaggio che è importante, che va usata bene. Solo noi abbiamo il congiuntivo, solo noi usiamo il “lei”. Sì, continua, sono molto impressionato. I registri, vogliamo parlare dei registri? Certo, son qua apposta.

Non usiamo più i registri. Aulico, colto, formale, colloquiale, popolare. Se non usi il registro corretto fai brutta figura, la gente si offende anche per meno. Ad esempio i politici, usano registri bassi, parlano per rendersi simpatici, perdono di autorità e sono di cattivo esempio. Forse, è una possibilità, non sono capaci, può essere che non facciano apposta, che siano davvero stupidi e incolti? I giovani, che sono scurrili e celebrano organi e atti sessuali citandoli così spesso, magari parlando di Dante o Manzoni – li capisco, anche a me viene da dargli della testa di fallo ogni tanto - non sanno più usare i registri alti.

È un gioco che non appassiona più, quello dei registri. Per non parlare del vocabolario, di tutte le parole che ci sono ne usiamo sempre meno, perdiamo le sottili differenze dei sinonimi. Potremmo fare campagne promozionali, le famose pubblicità progresso. Stupisci tua moglie stasera, usa un termine arcaico! Sbalordisci gli amici esibendo un linguaggio dotto e forbito. Facciamo un gioco a premi in tv, gettoni d'oro a chi indovina il registro.

Personalmente al liceo e all'università ho sempre trovato divertente imparare i gerghi. Ogni registro comporta un gergo, questo bisogna dirlo. Che poi magari uno pensa di poter usare i registri senza imparare i gerghi e ci rimane male. Gerghi significa vocaboli specifici, sintassi particolari, forte ricorso a forme metaforiche, stili oratori e strategie retoriche. Come quando i medici parlavano in latino fra di loro della tua malattia per non farti capire che non avevano la più pallida idea di cosa fosse e litigavano per salassarti con le sanguisughe o farti bere un po' di mercurio.

Gergo è potere. Se imparate il gergo potete passare un esame usandolo per girare attorno alle domande. Potete dire fesserie in modo così elaborato che risultino più convincenti di una sassata in fronte. Quando incontrate qualcuno che volete umiliare potete fare una gara a chi usa meglio il gergo e distruggerlo con la vostra abilità nel far andare la lingua. È questo che andiamo perdendo: tu estrai il fioretto di anni di studio e applicazione nella scoperta dei segreti dell'eloquenza e quello estrae la pistola della volgarità. Avete presente Star Trek: “Ogni resistenza è inutile, verrete assimilati.”

mercoledì 13 gennaio 2010

Sono nato forte.

Si possono leggere molte notizie ogni giorno, ogni ora. Ogni singola notizia può essere lo spunto per interi libri, per riflessioni infinite. Ci sono così tanti argomenti, così tante opinioni, che a volte si sente il bisogno di spegnere tutto, ti viene in mente che “Il giorno più impegnato può essere quello in cui te ne stai a guardare delle formiche che trasportano briciole di pane” (Cormac McCarthy).

Ecco, se devo proprio scegliere, oggi scelgo Joe Rollino. Nel vortice di orrore che ti afferra e cerca ti strapparti via dal suolo quando ti affacci sul mondo a guardare come va, ci sono angoli in cui rifugiarsi per far finta di niente, per ritrovare se non la pace, la calma. Questi angoli sono fatti di persone straordinarie, il surrogato della mamma che ti accoglie a braccia aperte quando ti sbucci le ginocchia e ti sussurra “Non è niente”, ti accarezza “Passa, sta passando.”

Sono persone che ti danno l'impressione di aver capito qualcosa di fondamentale, di aver vissuto dentro una bolla di consapevolezza eccelsa. Ho notato che per renderle più accettabili, per sopire il senso di rabbia che ci viene nel chiederci perché lui sì e io no, molte di queste persone diciamo che hanno la sindrome di Asperger. Sono malati, non è colpa loro se hanno un'intelligenza così sopra la media da sembrare alieni, intuiscono cose, capiscono cose, analizzano, fanno collegamenti, creano, finiscono per lasciare un mondo diverso da quello che hanno trovato, hanno il potere di cambiare quello che siamo in modi che nemmeno comprendiamo del tutto, se non dopo anni, decenni, a volte mai.

Una malattia, una sindrome, che per alcuni è una benedizione, per altri una maledizione, non si sa ancora bene in che termini metterla. Quel che è certo è c'è qualcosa che non funziona a dovere nel loro cervello, nella chimica dei neuroni, nella matematica del meccanismo genetico. Dobbiamo per forza codificare in termini di anti-normalità, di difformità (deformità?), le devianze, le conflagrazioni di intelletti che vedono con altri occhi, sentono voci che nessun altro percepisce, respirano – come direbbe Baricco – dove noi finiremmo soffocati.

Non so se Joe Rollino fosse uno di queste persone, ma oggi mi piace pensare che lo fosse. È morto l'altroieri. Guardo le sue fotografie, vado a leggere la sua biografia, ed è “come guardare delle formiche che trasportano briciole di pane”, distogliere lo sguardo, focalizzarsi su qualcosa di così insignificante da assumere un'importanza totalizzante. Oggi non riesco nemmeno a immaginare qualcosa su cui valga la pena concentrarsi che non sia Joe Rollino. È come se sapessi che un giorno questi momenti torneranno a galla portandosi dietro tutto quello che ora rimane implicito, i pensieri che una parte di me sta costruendo nel buio del sottoscala, come un ragazzino che si è nascosto per fare giochi proibiti.

Però posso parlare delle formiche, posso dire di Joe Rollino, limitandomi a una descrizione priva di commenti. Nato 104 anni fa, è stato travolto da un minivan su una strada di Brooklyn. Il conducente non era ubriaco, non superava i limiti di velocità, non si può accusarlo di nulla, a parte l'aver ucciso l'uomo più forte del mondo.

Un metro e sessantacinque per sessantotto chili. Veterano decorato della seconda grande. Combatté sul ring con lo pseudo di Kid Dundee, in posti dove la boxe era illegale. "Fighters would hit me in the jaw and I'd just look at them. You couldn't knock me out”, possono colpirmi sulla mascella e io mi limiterei a guardarli, non puoi mettermi ko. Sollevò una tonnellata e mezza coi denti, quasi trecento chili con un solo dito. In una delle rare volte che si offrì al pubblico rilasciando un'intervista, disse “Sono nato forte.” Non si sposò mai, altre fonti dicono che moglie e figlio sono morti. Non beveva, non fumava, non mangiava carne, faceva esercizio tutti i giorni.

Chi non ha bisogno di fermarsi almeno una volta a guardare le formiche, a stupirsi davanti ai mille modi di trasportare la propria briciolina, a cercare la formica malata che si muove diversamente, che la briciola la tiene in modo strano, col sospetto che un ragazzino stia combinando guai nel sottoscala, beh, mi dispiace, si perde il meglio.

giovedì 7 gennaio 2010

Un chip nel cervello

Non sanno più che scusa trovare per introdurre leggi contro l'anonimato in Internet. Prima terrorismo e pedofilia. L'ultimo spunto è stata l'ipotesi di apologia di reato e istigazione a delinquere e diffamazione.

Non si può scrivere quello che si vuole. Ma non si può impedire alla gente di scrivere quello che vuole. Un bel dilemma.

Sarò l'unico, ma rimango convinto che dietro a tutti i tentativi di blindare la Rete ci siano motivi economici. Il p2p consente di scambiarsi materiale di ogni tipo: programmi, libri, dischi, film. Il che non vuol dire – come affermano gli interessati – che ogni copia scaricata sia una copia in meno venduta perché la gente scarica roba che non comprerebbe neanche con un fucile alla schiena.

L'ipotesi è sostenuta anche dal fatto che una proposta di legge in tal senso, presentata come misura contro la pedofilia, è stata scritta da un uomo che lavora in un'organizzazione a tutela dei diritti d'autore. Sarebbe come presentare una legge contro il taccheggio al supermercato dicendo che è contro lo stupro.

Ad ogni modo l'ultima idea è quella di vincolare l'accesso alla rete a una carta d'identità elettronica. In pratica il provider certifica che sei proprio tu davanti al computer perché digiti la password che ti hanno dato.

Ora, non vorrei dire cose banali, ma le password vengono rubate in mille modi, anche per mezzo di keylogger, trojan, hijacking, phising, spacciandosi per un tecnico al telefono... Ci sono mille modi per impadronirsi di una password. Posso solo ipotizzare cosa succederebbe se un innocente si trovasse accusato di reati elettronici per essersi lasciato rubare la password.

Ma facciamo finta che sia possibile certificare ogni singolo utente della Rete. Qualcuno saprebbe tutti i siti visitati. Certe informazioni hanno grande valore. Certe aziende sarebbero disposte a pagare per sapere chi sono i loro potenziali clienti o il profilo di chi stanno per assumere.

Ma facciamo finta che le informazioni siano tenute al sicuro. Perché allora non applicare lo stesso principio alla vita reale? Aboliamo i contanti.

Si paga solo con chip che registra chi paga e chi e per quale motivo. In un colpo solo elimineremmo una miriade di reati. Prostituzione, droga, armi, evasione fiscale...

Non so perché, ma ho come la sensazione che tutti quelli che gridano contro la Rete diventerebbero molto silenziosi all'idea di non potere usare più i contanti.

Abbiamo già tanti problemi anche senza

Gli immigrati di religione musulmana hanno fatto nascere una discussione fra intellettuali nostrani sul pericolo del multiculturalismo, da non confondersi con pluralismo.

In pratica non ci possono essere tante culture in uno stesso posto. Un po' come dire tante civiltà, solo che se parli di civiltà parti col piede sbagliato perché è opinione consolidata che parlare di scontro di civiltà – il che presuppone che entrambe le parti rientrino in una definizione condivisa di civiltà – equivalga a fomentare guerra e distruzione. Allora parliamo di cultura.

La cultura cinese non ci crea problemi. Siam pieni di cinesi e manco ce ne accorgiamo. I filippini son da noi da decenni e anche quelli non danno fastidio a nessuno. Hai mai visto un cinese tentare di venderti paccottiglia nei parcheggi? Io no. Un filippino fare l'elemosina parlandoti dei suoi dieci figli che chiedono da mangiare in una capanna a migliaia di chilometri da qua? Manco di quelli ne ho visti. C'è pieno di polacche, rumene, sudamericane, africane che la vendono sulle statali e nessuno si lamenta. Ci danno fastidio solo i musulmani.

Se noi italiani siamo razzisti allora lo siamo in modo molto specifico: ci stanno simpatici tutti tranne quelli che, scusate la volgarità, ci rompono i coglioni. Scommetto che odieremmo anche i tibetani se uscissero in tv a dirci che siamo il diavolo e si imbottissero le mutande di tritolo per ammazzarci. Siamo un popolo che in quanto a odiare ci serve solo un motivo per farlo, fatecene una colpa se vi fa sentire meglio. Siamo abituati a odiarci fra di noi, ci odiamo anche fra regioni limitrofe, che dico, fra città confinanti, non dobbiamo fare grandi sforzi per odiare anche chi viene da più lontano. Che poi è un odio sui generis, tanto abbaiare e niente mordere.

Non siamo razzisti, siamo solo un po' incattiviti, c'abbiamo il dente avvelenato per problemi nostri. Però basta che dite che vi piacciamo e volete essere come noi che fioccheranno inviti a cena e pacche sulle spalle. Perché in fondo siamo buoni, il che però non vuol dire fessi.

La nostra cultura, o civiltà se volete, è quella che le leggi non le fa il Papa. Stato e Chiesa sono separate. È un'abitudine nata tanti anni fa da una cosa chiamata illuminismo. Non controlliamo i testi sacri se c'è da discutere una legge. Ecco perché siete voi a venire a vivere da noi e non noi a venire a stare da voi. Ci troveremmo molto male senza ciò che l'illuminismo ha messo nella nostra cultura e da lì nella nostra civiltà. Che voi un Papa non ce l'avete neanche, ogni tribù fa come gli pare senza che ci sia un incaricato a tracciare una linea valida per tutti i sudditi/fedeli.

Il pericolo serio paventato è quello di un partito musulmano. In Francia c'è già. In pratica vi diamo il permesso di stare qua, andare a raccogliere i pomodori in nero per due euro, fare i lavori che noi non facciamo più (abbiamo il 12% di disoccupati ma son tutti con diploma e/o laurea, sapete, da noi ormai una laurea non la si nega a nessuno, mica possiamo trattarli come merde nel modo in cui trattiamo gli immigrati). Potete stare qua ma non diventate cittadini, così non andate a votare e non ci ritroviamo leggi per tagliare le mani a chi ruba (quanti monchi in parlamento!), lapidare i fedifraghi e altre castronerie del genere.

Questa è tradotta in soldoni la dotta argomentazione degli intellettuali.

Fondata sul ridicolo.

L'ipotesi di modificare l'articolo 1 della Costituzione ha provocato una discussione - e già questo mi perplime – dai toni accesi – difficile trovare toni dimessi ultimamente – e la maggior parte degli interventi sono una levata di scudi: non toccate l'articolo 1!

L'articolo 1 dice “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”

La questione verte su tre parole “fondata sul lavoro” e su quello che significano.

Prima di pensare a cosa significhi fondare una Repubblica sul lavoro, su cosa si può fondare una Repubblica? Non saprei.

Sul gioco? In Italia il giro d'affari del gioco è enorme, 50 miliardi di euro. Il gioco del calcio è una specie di religione nazionale. In televisione ci sono ore e ore di trasmissione dove si gioca per vincere premi e soldi. Potremmo affermare che la Repubblica italiana è fondata sul gioco?

Sull'efficienza? Sulla sicurezza? Sulla solidarietà? Sull'estetica? Sul merito? Sulla pubblicità? Sul risparmio? Sulla scienza?

Perché avere quelle tre parole nella Costituzione è meglio che non averle? Che vuol dire fondata sul lavoro? Forse il contrario di “fondata sullo schiavismo”?

In certi paesi il lavoro veniva considerato un diritto e in teoria bastava presentarsi all'ufficio competente e ti davano un lavoro. Non so se quello desiderato, quello per cui si era portati o semplicemente quello richiesto in quel momento dal sistema. Non so neanche se pagato in base a domanda e offerta o in base a tabelle ministeriali.

Ad ogni modo non credo esistano ancora al mondo paesi che garantiscano il diritto al lavoro in tal senso. Oggigiorno è piuttosto inteso come “se vuoi lavorare nessuno te lo può impedire”, ammesso che un lavoro lo trovi, che tu sia messo in regola, pagato il giusto e che tu riesca a tenertelo.

Quindi “fondata sul lavoro” non vuol dire che lo Stato deve trovarti un lavoro se non ce l'hai.

Allora vuol forse dire che se non lavori ti levano la cittadinanza? Devi lavorare fino all'ultimo fiato che hai in corpo, giorno e notte? Se accumuli ricchezza al punto da poter vivere di rendita te la tolgono perché tu possa tornare a lavorare? Ti cuciono una specie di stella di David sul cappotto se non lavori?

Mi sforzo ma non riesco a capire perché siano così importanti quelle tre parole. A me piacerebbe anche fondata sulla felicità, sulla libertà, sull'onestà, sull'onore, sulla famiglia. Sono sempre stato convinto, fin da piccolo, che chi dice di essere felice di lavorare o mente o è pazzo. Se fosse così bello da essere preferibile a, che so, giocare coi propri figli, fare l'amore con la persona amata, passeggiare su una spiaggia tropicale senza una preoccupazione in testa... beh, non si chiamerebbe lavoro, si chiamerebbe sostanza stupefacente e sarebbe illegale.

Per cui abbiamo una Repubblica fondata su una cosa brutta, che non piace a nessuno che sia sano di mente, che serve solo a procurarsi i soldi per vivere al meglio il poco tempo libero che ci lascia. Cosa cambierebbe in concreto se togliessimo la parola “lavoro” e ce ne mettessimo un'altra? Niente.

E tanto che ci siamo diciamola tutta: anche l'inno di Mameli fa schifo. Ce la vedi una grande cantante americana che all'apertura del superbowl, davanti a milioni di persone, canta la marcetta di fratelli d'italia? Si piangerebbe, non per la commozione, ma dal gran ridere.