martedì 16 marzo 2010

15 anni fa

Le mappe di solito fanno sembrare molto vicina l'Africa rispetto all'America, in realtà ci vuole più tempo per volare a Nairobi che a New York. Per arrivare in Ruanda nel 1994 devi fare scalo a Nairobi, prendere un aereo per Bukavu, Zaire (il Congo è Zaire dal 1971 al 1997), l'aereo postale più vecchio sul quale sia mai salito, motori a elica, i sedili foderati in sky screpolato marrone che mi ricordano quelli della cinquecento gialla col tettuccio di tela cerata di mia zia, quella che dovevi tirare diverse volte una levetta fra i sedili prima di tentare l'accensione. Tutto il viaggio col portellone aperto, a poche centinaia di metri da terra, se allunghi la mano tocchi la schiena dei piloti che si dicono cose divertenti, lo capisci dal fatto che ridono molto.
Quando atterri a Bukavu e vai al bagno dell'aeroporto ti viene da vomitare per la puzza che c'è, ma ti scappa tanto e ci vai lo stesso, trattieni il fiato guardando il getto della tua piscia innaffiare una massa di larve di mosca che ribolle nello scarico. Non c'è l'acqua nei tubi, è inutile che premi il bottone dello scarico. L'aeroporto è presidiato da soldati che parlano francese. Qui un tempo ci vennero belgi e tedeschi, i cosiddetti boeri. Costruirono strade, centrali elettriche, pozzi. Adesso è tutta roba che sta più o meno rapidamente andando in malora.
A Bukavu prendi una macchina e fai diverse ore di strada, attraversi il confine e sei arrivato in Ruanda. Il confine. Il confine è una sbarra in mezzo alla strada, se così si può chiamare un insieme di buche con dell'asfalto coperto di terra rossa che le unisce. C'è un casotto di legno, tetto di lamiera, lì accanto. Fermano solo le macchine. Donne con involti di tessuto colorato sulla testa ondeggiano su ciabatte, se hanno le fortuna di averle, dirette chissà dove, come formichine sul ciglio delle strade. Oltre al posto di frontiera c'è un casotto che vende non so cosa. Vedo pacchetti di noccioline in involucri multicolori, prodotte chissà dove, appese vicino al bancone. Di fianco a quello che penso sia un bar c'è però un telefono, un negozio che vende telefonate, si capisce dal cavo. C'è un solo cavo che corre sugli unici pali per arrivare in quell'unico negozio.
Il cavo finisce in un telefono grigio, a rotella, i numeri non si vedono più, consumati da innumerevoli polpastrelli. Provo a fare una telefonata, dopo diversi minuti di scariche elettrostatiche e dialoghi in francese e inglese arriva un segnale mai sentito, un infinito lamento semitonale. Appendo la cornetta e pago il sorridente negoziante, commesso, incaricato, quel che è. Non sono ancora abituato a tutti questi sorrisi con i denti in mostra, ogni volta rimango sorpreso davanti a tutti quei denti bianchi. Qualche volta mi ricordo della mia faccia e cerco di mostrare anch'io i denti quando sorrido, ma non è una cosa che farei davanti a uno specchio. Mi sembra tutto eccessivo, ma dipende da me, mi dico, sono io che mi devo ambientare.
La guardia di frontiera è una donna seduta a un tavolo nel casotto accanto alla sbarra. Controlla i documenti e dice qualcosa in swahili al suo attendente. Quasi tutte le frasi in questa regione finiscono con “Eeehhh”. Ridono. Passa al francese e mi dice non puoi entrare. Rimango zitto, aspetto. La donna sfoglia ancora i documenti e scuote la testa, poi dice c'è un'epidemia di meningite e qua manca il vaccino e di nuovo un sorriso a mille denti che non smette mai di atterrirmi. A questo punto interviene la mia guida, prende il libretto dei vaccini, mi tira in disparte, mi dice dammi qualche dollaro. Infila la banconota da dieci nel libretto e torna dalla donna, e dice è tutto a posto, e offre una caramella all'attendente mentre la donna controlla meglio e timbra il passaporto e ci fa segno di andare.
La guida offre una caramella anche a me, io gli prendo l'intero pacchetto e lo passo a un bambino che mi segue da quando sono sceso dalla macchina. Tutto quello che indossa è un paio di calzoncini. Mi chiama 'Père'' e sua madre, seduta sui talloni a riposare, non lo perde mai di vista. In mezzo ai suoi piedi si sta formando una piccola pozzanghera di muco e sangue, ogni tanto tossisce e sputa. Il bambino prende le caramelle e corre da sua madre che si rialza, lo prende per mano e se ne vanno via. Nessuno dei due si volta a guardarmi.
Adesso siamo in Ruanda, passiamo sotto una massicciata dalla quale si vede la punta di qualche fucile. Poco più avanti c'è un posto di blocco e fra i soldati c'è un ragazzino alto poco più del mitragliatore che imbraccia. I pantaloni della mimetica sono rimboccati alla caviglia. Sembra felice. La guida mi dice di nascondere la macchina fotografica e tirar fuori qualche banconota. Tra qualche ora arriveremo a Kigali, la capitale del Ruanda. Dormiremo in una missione e domani mattina ripartiremo per raggiungerne un'altra. Il missionario che ci ospiterà a Kigali sarà morto prima di due mesi ma ancora non lo sa e quando mi vede tirar fuori una sigaretta me ne chiede una. Non ne fumo una da mesi, mi dice, e ridacchia per pensieri che restano suoi. Gli lascio tre pacchetti della mia scorta prima di andarmene. Ufficialmente sarà morto per incidente stradale.
A Kigali sta per succedere un genocidio, fra due mesi gli Hutu (85% della popolazione) uccideranno i Tutsi (15%). Adesso i Tutsi sono più di un milione, quest'estate ne resteranno vivi trecentomila. La differenza sarà uccisa in tre mesi, al ritmo di diecimila al giorno, sette morti al minuto, donne e bambini compresi. Con le pallottole, con il machete, con il forcone, a calci e pugni, a sassate, ponetevi come limite la fantasia e ci saranno usati modi per uccidere a cui non siete arrivati. Potete per esempio immaginare di aprire la pancia di una donna incinta e infilzare il nascituro su un bastone e sventolarlo davanti agli occhi della madre che sta morendo dissanguata? Forse no.
Mentre raggiungiamo la missione attraversiamo la giungla. Non riconosco le piante, non mi sembra normale il colore di questa terra. Perfino l'odore dell'aria è nuovo per me. È tutto diverso. Perfino gli insetti, una stupida formica riesce a stupirti. Qui devi usare l'amuchina per disinfettare l'acqua prima di berla. Se cammini senza scarpe c'è un parassita che ti entra nella pelle del piede, usa le vene per arrivarti nei polmoni, ti sale nella trachea e ti scende nell'esofago per andare a stabilirsi nel tuo intestino. C'è un'epidemia di colera alla missione sulla riva del lago Kivu e non possiamo farci sosta come era previsto. Zanzariere e insetticida sono ancora un lusso per pochi, e ti devi ricordare di bere le pastiglie per la profilassi antimalarica.

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