venerdì 17 settembre 2010

Buttarsi via.

Adesso c'è questa moda del buttarsi di sotto, sfracellarsi mancando la piscina. In Giappone i ragazzini cercano su internet qualcuno disposto a farla finita in compagnia. Ci sono manuali che elencano tipologia di suicidio, con tanto di costo in termini di tempo, fatica, dolore, pecunia, fastidio arrecato. Un vecchio che chiede l'eutanasia può suscitare comprensione: regaliamo una morte indolore ai cani e obblighiamo gli uomini a soffrire fino all'ultimo secondo. Ma un giovane che tronca la sua vita ci lascia interdetti. Si sono scatenati gli psicologi, i pedagoghi, gli opinionisti, i genitori, tutti a chiedersi il perché.

La spiegazione prevalente è che ci sia qualcosa che non va in loro, qualcosa di rotto. Non hanno la forza di combattere e scelgono l'opzione più semplice. Un'altra causa viene indicata nell'espressione di protesta, l'esercizio della richiesta di aiuto nella sua forma può estrema: il rifiuto. Un'altra ragione viene identificata nella soddisfazione di un bisogno di visibilità, di ri-conoscenza, che non può venire soddisfatto in mancanza di un'azione eclatante, degna di venir notata e portata all'attenzione degli spettatori. Un'altra ancora suggerisce l'ambiziosa autoillusione di possibile grandezza che viene instillata nei giovani, quando si rivela un'esca per costringerli all'impegno e sul loro biglietto della lotteria non ci sono i numeri estratti per loro non esiste più futuro.

Oppure la morte come manifestazione artistica per esprimere la padronanza di un senso dell'esistenza altrimenti inesprimibile. Sembrano dirci che hanno capito o capiranno ciò che chi non si toglie la vita non capirà mai. E il fatto di togliersi la vita li libera dal dovere di dimostrarlo, garantendo la vincita a tavolino in un gioco che ha valore solo per chi lo gioca. Quando la complessità dell'essere umano si riduce a un sentimento di inganno l'esito non può che essere l'annientamento per chi non ha nessuna intenzione di lasciarsi truffare.

Questo secondo me val la pena di indagare: l'origine della coltre di finzione che avvolge certi giovani. Siamo ancora in grado di fornire un orizzonte, una prospettiva? O tutto si riduce a riuscire a farsi notare da chi può decidere la nostra vita in un meccanismo che premia la capacità di scendere a compromessi, di svendersi, di perdersi, mettendoti nella condizione di dover scegliere tra l'uccidere la persona che ami o morire entrambi?

Quali sono i giovani che premiamo? Quelli che seguono tutti i consigli della pubblicità? Quelli che fanno più audience? Quelli che hanno saputo crearsi una rete di relazioni sociali dimostrando di essere malleabili e corruttibili? Quelli che hanno il coraggio di compiere azioni così eclatanti da meritarsi titoli in prima pagina? Quelli che guadagnano tanto sfruttando un presunto talento banale e ridicolo?

Inoltre, che tipo di vita attende chi non ce la fa o non accetta le regole? Ha la speranza di trovare un luogo in cui stare e un gruppo di suoi simili? Oppure si sente così solo e diverso da sentirsi in dovere di uscire di scena per non rovinare lo spettacolo? Ha paura di avere davanti giorni tutti uguali fatti di occhiate pietose, sorrisi di scherno e sentimenti elemosinati? Siamo sicuri che non si buttino perché sentono il peso di un interrogativo ma non sanno porre domande come queste nemmeno a se stessi?


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