lunedì 9 gennaio 2012

L'era della congestione

La società è anche un luogo affollato, è prima di tutto un luogo affollato. Prima di essere un'astrazione, una categoria, un modello, la società è un posto fisico condiviso, di natura pubblica, come una piazza concreta o virtuale dove si forma l'opinione dominante mediante il dibattito fra i campioni (nelle scuole americane è materia di studio, il sostenere una tesi, l'argomentare, da noi si fa casino e vince chi urla di più o picchia più forte, e anche questa è una differenza in termini di civiltà, se non di mentalità radicata nel passato, dove da una parte si lottava per libertà e indipendenza dalla monarchia, di qua si combatteva per sostituire il potente altrui con il potente del nostro campanile). Mi sono perso, dicevo la società come luogo fisico di incontro e confronto, dove matura e si svolge la vita collettiva, dove si prendono decisioni che riguardano tutti e diventa importante uscire vincitori nella battaglia per il controllo sulle risorse pubbliche. Chi domina la piazza ottiene il diritto al comando, è così da sempre, sia che lo ottenga da dittatore utilizzando esercito e polizia segreta, sia che ottenga il voto della maggioranza con gli strumenti della propaganda direttamente, con la complicità dei media, o indirettamente, facendo leva sul populismo. La società come luogo fisico è cambiata nel tempo, viviamo l'era della congestione informativa, dove è ormai impossibile avere certezze maturate in ambito razionale sia per carenza di strumenti intellettuali nella gente (non è vero che miliardi di persone non possono sbagliarsi tutte assieme, che la cosa giusta da fare emerge dai grande numero di chi esprime una preferenza a riguardo) che per quantità di materiale oggettivamente impossibile da assorbire. Per cui ci si schiera e basta, a prescindere, si decide che di qua ci sono i buoni e di là i cattivi e si discrimina fra le migliaia di fonti per selezionare quelle adatte a sostenere la nostra squadra, go go go party go!, la politica da stadio, ma neanche, che gli atleti li selezionano, qui invece ci va chiunque riesca a garantire un ritorno economico in termini di legislazione favorevole ai sostenitori della causa.

Oggi anneghiamo nell'informazione selezionata. Ormai non è nemmeno più chi produce l'informazione a fare al differenza, non servono articoli lunghi e approfonditi dove si riferiscono e si spiegano i termini della questione, lasciando addirittura al lettore la possibilità di farsi un'idea propria, no, adesso si scrive direttamente l'invettiva, l'arringa, si dà direttamente al lettore il materiale da ripetere a pappagallo contro i tifosi dell'altra parte politica, anche se nella realtà non li incontra mai, le persone al bar, all'edicola, in fila alla cassa, non discutono di politica, non si strappano i capelli a vicenda sulla notizia scandalosa del giorno. I più agguerriti si ritrovano in piazza, appunto, per riconoscersi fra di loro, per gridare tutti insieme arbitro venduto, viva noi abbasso voi, senza che ci sia mai, nelle piazze, uno scontro fra tifoserie che non sia destinato a sfociare nella guerra civile, perché o sei minoranza, e allora vai in piazza a litigare contro la maggioranza dei votanti e contro la democrazia, o sei maggioranza e allora vai in piazza a manifestare contro te stesso, o sei circa la metà degli aventi diritto e allora cosa facciamo, ci ammazziamo l'uno con l'altro? Questa è la piazza dei nostri giorni, il luogo fisico in cui si concretizzano i rapporti sociali nell'era della congestione informativa, un posto diverso da quello di secoli fa solo per via della quantità di gente che la occupa e della quantità di voci che si sovrappongono e gridano per farsi sentire, e internet come piazza virtuale e globale ne è l'apoteosi. Non è per nulla diversa dalla piazza di secoli e secoli fa, è ora di finirla con la presunzione dei figli del petrolio di credersi antropologicamente migliori dei loro predecessori e dei contemporanei che non li seguono nelle loro scelte di pensiero, perché lo schema gregario e acritico dell'opinione pubblica si estende alla miriade di caratteristiche private del vivere. La pressione conformista assume connotati totalitari nel momento in cui la piazza, intesa come quella parte di società che si esprime sui canali mediatici con la pretesa di rappresentare un popolo intero, ti mette di fronte all'evidenza che il mondo è pieno zeppo di gente che ti dà molto fastidio, basta sapere che c'è al mondo gente così e diventa più brutto vivere, più difficile sorridere. Non è come uscire di casa andare nella piazza semideserta del tuo paese e incontrare uno che suona il clacson, sputa per terra, che tu pensi va bene, è uno, uno solo, non vale la pena di punirlo e di rovinarsi l'umore. La piazza mediatica ti ripete, giorno dopo giorno, lo fa da decenni, lo fa sempre di più, con incremento esponenziale, che i tifosi della tua o altrui squadra sono tanti, non è uno, sono milioni, sono dappertutto.

La canea dell'informazione ti priva oggi più che mai della rassicurante e confortevole sensazione di avere uno spazio vitale inviolabile, una dimensione personale, sacra e intoccabile, di libertà e purezza, dove ti è possibile e garantita un'esistenza in piena e totale serenità. La convivenza pacifica viene avvelenata da una costante necessità di distinguo, richieste di schieramento, chiamate alle armi simboliche. La piazza odierna ti segue dentro casa, ti rende dipendente, ti fa compagnia, i media veicolano e amplificano l'infezione costruendo mitologie tascabili a breve scadenza, distruggendo qualsiasi tentativo individuale di integrità responsabile, di maturazione creativa. Col tempo il canale diretto tra la bocca del potere e l'orecchio del suddito si è accorto della pericolosità del mezzo e si è trasformato per disinnescare l'arma che ha permesso e permette con una facilità agghiacciante l'installarsi delle dittature totalitarie. Per impedire l'abuso di un potere distruttivo abbiamo sacrificato la necessità di un potere costruttivo. Nell'era della congestione ci attacchiamo a mammelle sempre più sterili, rifiutandoci di abbandonare il nido, di ammettere l'aver imboccato un vicolo culturale romantico quanto si vuole ma cieco, è un fatto. Non ci si vuole arrendere all'evidenza, non si vuole abbandonare il benessere fittizio rubato ai posteri per tornare indietro nel tempo a imboccare una strada diversa da quella del Progresso di cui ci ostiniamo a riempirci la bocca a sproposito. Passiamo a speculazioni di seconda mano, poi di terza e di quarta, fino a privare di senso e significato qualsiasi tentativo di comprensione, inficiando il concetto stesso di gnosi, irridendo gli sforzi di chi si illude che esista la possibilità di un fondamento. La decadenza del pensiero occidentale si misura non solo nelle crisi economiche, di valori, nel degrado dei costumi o nell'inquinamento, ma anche nella fragilità, nella paura, nella dipendenza, nell'incapacità dei singoli uomini, come elementi di un corpus comunitario, di abbandonare una strada senza uscita ma comoda, accogliente, fresca e umida e buia, perfetta per nascondersi e rintanarsi. Il coraggio di ridiscutere i principi e risalire alle radici è come trovare ogni mattina un motivo valido per svegliarsi.


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