Si tende a non parlare del presente, a tenere per sé le riflessioni sul presente, per evitare complicazioni, implicazioni, ritorsioni, per evitare di dare l'impressione di vantarsi o di lamentarsi, di fare i drammatici o i superficiali, perché non va mai bene come sei, quel che fai, come ti rapporti a, il modo in cui reagisci. Nel presente si naviga a vista se si ha un minimo di intelligenza o di esperienza, di sensibilità o di educazione, altrimenti si procede a carrarmato, conosci anche tu quelli che sanno tutto loro, che ti insegnano come si fa, che si stupiscono di te perché non gridi, non ti ribelli, che se non ti imponi non ottieni, che ti devi conquistare tutto, che hai diritto a tutto. Nel presente, parlo per me, si tende a evitare lo stress, si passa gran parte del tempo a prepararsi per subire lo stress, e col tempo le fonti di stress si moltiplicano, perfino l'assenza di fonti di stress diventa una fonte di stress. C'è un tempo in cui fai tutto quello che devi fare perché è quello che ci si aspetta da te, studi latino, per esempio, anche se il latino è una lingua morta che ti fa schifo al, stai nel traffico cantando l'ultimo successo alla radio, e quando ti viene da riflettere a te come corpo vivente in una scatola e ti viene da chiederti perché, che senso ha, scacci i pensieri, gridi contro un altro automobilista che tanto mica ti sente, mica ti vede, mica se ne accorge, e se ne sbatte se pure ne accorge, dato che ti sei appoggiato sul clacson e sputi saliva con gli occhi invenati come una scimmia resa pazza da una consapevolezza crudele.
C'è un momento nella vita in cui si supera una frontiera, anzi, ci sono molti momenti così, ma oggi voglio parlare di una frontiera particolare, quella che da un po' mi ci riferisco come effetto Franzen. Non perché sia imputabile a Franzen, solo perché mi sono accorto di esserci entrato mentre leggevo Franzen. È una frontiera simile al presente, di cui non si parla per tanti motivi, fra i quali il problema di prospettiva, che quando lo si vede per intero il presente è andato, è troppo lontano. Come quegli anziani che hanno la faccia tosta di farti capire che ci sono già passati, che non ti invidiano la presenza di spirito che ti causa struggimento e ti rende famelico, gli anziani che annuiscono e ti dicono passerà, starai meglio, come a dire tu finirai o non finirai come me, tu troverai la via, la verità e la vita, andrà tutto bene, sei nato per dimostrare che ho ragione, che è possibile, che non farai i miei stessi errori. Gli anziani che esibiscono quella patina di menefreghismo egoista con la pretesa che venga scambiata per la superiorità e il distacco tipici di chi ha capito l'importanza di, il segreto della, che ha trovato i soldi per pagare i conti del dolore, della colpa, degli errori di gioventù. Gli occhi di chi è soddisfatto oppure no, di chi è stato svuotato e riempito troppe volte, di chi si aspettava chissà cosa ma va bene così, la grande consolazione di sapersi accontentare senza cadere nell'abuso di farmaci.
Lo chiamo effetto Franzen quello che interrompe il meccanismo di implicazione, di adesione formale, alle liturgie della civiltà, l'immedesimazione con il teatro pubblicitario, i media come anfiteatro dove si mangiano i poveri, gli sfigati, i perdenti, i malati, dove si impara a evitare tutto ciò che potrebbe identificarci con la parte sbagliata della società, quella brutta, vestita male, coi denti storti, claudicante. La frontiera della partecipazione, dove perdono peso le balle dei politici più invitati e le opinioni dei giornalisti più cliccati, dove le statistiche puzzano e le battute dei comici sono meno tristi delle risate che provocano. L'effetto Franzen è quando sai che l'ennesimo prodotto di intrattenimento non sarà soddisfacente, va persa una chiave, come nell'assuefazione, serve musica a volume sempre più alto, serve più violenza, più parolacce, più sesso, altrimenti non mi diverte più, e alla lunga subentra l'anestetico, l'arto fantasma che succede l'amputazione, o l'atrofizzazione dell'organo del piacere, una forma di atarassia colma di panico, come quando ti rendi conto di essere sul punto di annegare. L'effetto Franzen che riconosci come un'eco che al posto di ridursi progredisce diventando assordante, l'eco di tutte le volte che hai abbandonato qualcosa o qualcuno, certi giocattoli, figurine fumetti favole, telefilm, certe canzoni e certi libri che avresti giurato inestinguibili, che alcuni – saranno sinceri o solo stupidi? - si portano dietro fino alla morte come legati da un patto di sangue, un debito perenne per aver riempito vite così ristrette da stare dentro a un ditale.
Non possiamo parlare del presente e non possiamo mangiare a stomaco pieno, l'effetto Franzen ti provoca la nausea, non riesci più a leggere libri che ti sembrano tutti uguali, film che ricalcano trame abusate, e ti chiedi quanta vita hai davanti e come farai a riempirla, dove troverai sostanze in grado di scatenare nel tuo corpo la soddisfazione, anche piccola, anche temporanea, la voglia di costruire che ti viene quando ti danno i componenti di un oggetto mai visto prima, dal funzionamento inimmaginabile, e un manuale di istruzioni scritto in una lingua sconosciuta. L'effetto Franzen è quando la probabilità che succeda viene percepita come mutata drasticamente verso il basso, quando inizi a chiederti se è normale trovare interessanti i documentari, quando ti accorgi che è da qualche giorno, mese, anno, che hai preso la folle abitudine di, quando leggi un libro che qualche anno l'avresti buttato via dopo due pagine, quando scopri di avere più pazienza del necessario, e annuisci a un giovane incazzato, gli dici tu devi conquistare il mondo, tu hai diritto al meglio, tu sei pieno di energia, se una bomba a orologeria, tu devi fare cento figli, diventare miliardario, comandare gli eserciti, ma soprattutto ritardare gli effetti Franzen, devi restare stupido, ignorante, animalesco, la tua odiosa naturalezza è ciò che ti tiene al riparo dall'autodistruzione, il sapere ti avvelena, giovane Icaro, l'intelligenza ti uccide, benvenuto a Pandemonio.
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